INTERVISTA INEDITA AL REGISTA FERNANDO BIRRI (A cura di MARCELLO CELLA e SIMONETTA DELLA CROCE)
27/07/2007 -
PISA, Cineclub Arsenale 1988:
INTERVISTA al regista FERNANDO BIRRI:
(A cura di MARCELLO CELLA e SIMONETTA DELLA CROCE)
Fernando come consideri la tua opera?
Birri: "Una ricerca...Un cercare più che una ricerca. Un cercare delle risposte a tante domande che porto dentro come tutti, domande che la realtà esterna mi pone, e quindi mai come un momento fine a sè stesso, ma semmai in funzione di un permanente ritornare a chiedersi e a chiederci delle cose alle quali altre opere dovranno dare risposta".
Ti consideri più un regista o un attore?
Birri: "Nè un regista, nè un attore per essere sinceri. Mi considero un uomo
che in fondo ha una insoddisfazione profonda di fronte alle cose, che non riesce ad accettare questo mondo così com'è e che tenta di capirne certe chiavi, certe leggi, certi principi, che vorrebbe forse in un qualche modo contribuire a ristabilire un equilibrio che in fondo c'è ma che abbiamo perso e che non siamo stati capaci di conservare e soprattutto di portare avanti, di sviluppare in termini più armonici. In fondo è come se ci fosse un'armonia profonda nel creato che noi in un qualche momento di questa lunga avventura biologica abbiamo perso. Quindi il mio cercare è un trovare delle orme di questa avventura e magari così delle risposte, dei cartelli indicatori che ci possano dire dove andare. Concretamente quando ti dico che non mi sento nè un regista, nè un attore è perchè in fondo quando io stesso cerco dentro di me a quale categoria io appartenga l'unica nella quale mi identifico veramente è quella del poeta. Cioè io sento che la mia profonda passione, espressa o no, espressa fino ad un certo punto, è la poesia. La poesia per la quale e con la quale ho lavorato è stata la prima materia con cui ho avuto a che fare in senso letterario, scritto; alla quale ho cercato di dar vita anche con la pittura, poi con il teatrino delle marionette, poi con il teatro degli attori e poi alla fine anche con il cinema e con la televisione che è un mezzo più forte. In ultima istanza mi sembrano tutti strumenti per dar forma a questa specie di voce di speranza interna che non può trovare altre risposte se non la risposta poetica".
Hai scritto il tuo ultimo film, un signore molto vecchio con delle ali enormi, con Garcia Marquez. In che misura la tua realtà coincide con la sua…
Birri: "Coincide nella misura in cui lo sguardo di Garcia Marquez ed il mio sguardo si concentrano sulla realtà latino-americana. C'è un mio sguardo sull'opera di Garcia Marquez, e c'è uno sguardo di Garcia Marquez sulla mia opera. Ci seguiamo l'un l'altro con moltissimo rispetto ed affetto da tanto tempo, però fondamentalmente oltre a questo sguardo reciproco sull'opera dell'altro c'è questo sguardo convergente sulla realtà latino-americana. Ovviamente in questo sguardo ci sono dei punti di contatto e degli sviluppi autonomi, anche se non di contrasto. In questo sguardo di ognuno di noi, anche se è una categoria riduttiva, lo sguardo di Garcia Marquez è quello del cosiddetto 'realismo magico', mentre il mio, fin dalle mie opere, quello delle prime inchieste sulla realtà sociale dell'America Latina, è stato uno sguardo critico. A questo punto, ritrovandoci dopo quarant'anni di fratellanza, quest'opera tenta di proporre un nuovo modo di guardare alla realtà latino-americana che sarebbe quello di uno sguardo 'critico-magico'".
Quindi come definiresti questa tua ultima opera?
Birri: "La definirei in primo luogo come una favola latino-americana, più specificamente tropicale e caraibica. Una favola tragicomico-magica, cioè grottesca. Per me, in quanto argentino, il grottesco è un genere molto familiare, c'è una lunga tradizione del grottesco, soprattutto nel teatro. Quindi una favola tragicomico-magica. Dal punto di vista stilistico potrei definirla un'opera barocca, ma un barocco americano non quello di Bernini o di Vivaldi, semmai quello di Churigueira, colui che ha fatto gli altari delle grandi cattedrali latino-americane, in Perù, in Bolivia, in Messico. E questo barocco americano è un barocco visionario. Quindi se tu adesso mi porti a sintetizzare in una formula, in una proposta di ricerca questa mia ultima opera potrei dirti che è una favola tragicomico-magica e barocca".
Attribuisci molta importanza alla musica?
Birri: "Moltissima. La musica in America Latina è anche un modo di contrapporre la vita alla morte, è un modo del nostro sopravvivere, del nostro modo di viverci. E quindi in questo ultimo mio film la musica ha una grande importanza. All'inizio era stato addirittura concepito come un film muto, e comunque con pochi dialoghi. Come nei film muti c'era la musica di un pianoforte che accompagnava la proiezione, così nel mio film c'è la musica, o meglio la colonna sonora, con i rumori della realtà, tanto forti nel film quanto sono gli odori che dovrebbero essere presenti. Questa musica possiede la metà del film. Il film per me è metà immagine e metà suono, metà occhio e metà orecchio. In questo film specificamente la musica ha una collocazione molto particolare, tanto è vero che ci sono due musicisti, un musicista cubano che ha fatto i due temi caraibici e poi c'è Gianni Nocenzi che invece ha fatto il tema rock della Donna Ragno che sarebbe la musica che accompagna questa carovana di girovaghi, di zingari che arriva con questa cassetta, con questa musica d'infiltrazione, cosmopolita, che loro hanno raccolto in qualche luogo nel quale sono passati durante i loro spostamenti attraverso l'America Latina, e che in qualche modo vuole stabilire un confronto, un contrappunto in questa sfera sonora che vuole essere il film".
Stai già pensando a qualcos'altro? Hai detto che volevi riprendere in mano quel vecchio progetto con Vasco Pratolini, Malamerica…
Birri: "Si quello è ancora da fare, appartiene alla categoria dei sogni nel cassetto, però la vita mi ha dimostrato in modo molto duro, ma anche stimolante per me, che questi sogni nel cassetto qualche volta si riescono a portare sullo schermo. Uno sarebbe questo…".
E gli altri?
Birri: "Malamerica è un film scritto e progettato insieme a Vasco Pratolini proprio negli anni del mio secondo esilio, nei primi anni Sessanta, e sarebbe un film sulle generazioni di italiani che sono arrivati in Argentina verso il 1880 fondendosi nell'espressione di un'altra identità nazionale che poi è anche un altro dei temi del film. Queste espressioni di identità nazionale, o continentale latino-americana in questo caso, e lo sto capendo anche adesso quando presento i miei film, sono punti di forza della mia opera ma anche punti di disturbo perchè più questi film si avvicinano a questa identità che non corrisponde all'identità tradizionale della cultura occidentale e, per l'Italia, mediterranea, più trovano adesione o rifiuto a seconda della capacità di sintonizzarsi con questa proposta. E' un punto di forza e un punto di rischio perchè se tu ti metti davanti al film senza pregiudizi intellettualistici allora sei in grado di prendere quello che il film ti può dare, ma se invece parti con dei preconcetti c'è, da una parte, una volontà di incasellare il film, e, dall'altra, una difficoltà a incasellarlo perchè non corrisponde più ai parametri tradizionali di una cultura conservatrice. E questo anche perchè il film tenta di esprimere con una nuova forma un mondo nuovo, un mondo che è ancora nuovo dopo cinquecento anni di vita. Oltre a questo progetto c'è anche un altro film al quale tengo molto che è Gaucho Pampa. Gaucho Pampa dovrebbe essere un film mitologico sulla fondazione mitologica appunto dell'America Latina, di Buenos Aires, quindi più che altro argentina, e ancora più concretamente la pampa di Santa Fè dove sono nato io".
Tu dirigi una scuola di cinematografia a Cuba. Volevo sapere quanto la tua esperienza didattica ha influito sulla tua cinematografia e sulla tua poetica.
Birri: "Direi piuttosto alla rovescia perchè la scuola è una creazione molto recente. La scuola è nata nel 1986 e quindi è un pò una conseguenza delle idee che io sto portando avanti da tanti anni. Nel 1956 io ho praticamente dato vita alla prima scuola di cinema dell'America Latina proprio a Santa Fè, il mio paese natale. Allora eravamo alla scoperta di un cinema di identità nazionale, di identità realista, di identità popolare che fosse soprattutto critica, lavoravamo alla ricerca di un realismo critico. Però gli anni sono passati, il mondo è cambiato, noi siamo cambiati e allora arriviamo a questa nuova scuola, che è una scuola cinematografica e televisiva internazionale, una scuola che noi soprannominiamo 'dei tre mondi' (America Latina e Caribe, Africa e Asia) e in cui raccogliamo tutti gli insegnamenti che il cinema latino-americano in tutti questi anni ha espresso. E quindi è una scuola collettiva, una scuola plurale per America Latina, Africa e Asia, una scuola di poetiche aperte che non è più soltanto mia. Io l'ho impostata per quanto riguarda le varie materie, i vari livelli di insegnamento e le loro interrelazioni, ma sotto il punto di vista estetico e culturale è una scuola molto aperta che tende a mettere insieme e a confronto tutte le diverse poetiche del nuovo cinema latino-americano. Quindi è una scuola in cui non sono io a mettere in atto una poetica, ma semmai mi faccio 'portiere', nel senso di colui che cerca di aprire le porte del nuovo cinema latino-americano. O, forse meglio, solamente 'bidello'".
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