FOXCATCHER - UNA STORIA AMERICANA: STEVE CARELL, CHANNING TATUM, MARK RUFFALO (SIENNA MILLER E VANESSA REDGRAVE IN CAMEO) SERVONO EGREGIAMENTE LA STORIA DI WRESTLING SCOVATA DA BENNETT MILLER (TRUMAN CAPOTE-A SANGUE FREDDO, L'ARTE DI VINCERE) TRA UNA DELLE PIU' DRAMMATICHE PAGINE DI CRONACA
5 NOMINATION agli OSCAR 2015: MIGLIOR REGIA (Bennett Miller); MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA (Steve Carell); MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA (Mark Ruffalo); MIGLIORE SCENEGGIATURA ORIGINALE (E. Max Frye e Dan Futterman); MIGLIOR TRUCCO E ACCONCIATURA (Bill Corso e Dennis Liddiard) - PALMA D'ORO alla 'MIGLIOR REGIA' (BENNETT MILLER) al 67. Festival del Cinema di Cannes (14-25 Maggio 2014) - CONCORSO; RECENSIONE ITALIANA e PREVIEW in ENGLISH by JUSTIN CHANG (www.variety.com) - Dal 12 MARZO
"Le cose stranissime che sono avvenute in quella villa non assomigliavano a nulla che io avessi sperimentato in prima persona in vita mia, ma nonostante questo ho subito provato una sensazione di familiarità . C'era qualcosa in quella storia o forse sotto a quella storia che sentivo essere tutt'altro che strana. Anzi, l'esatto contrario. È una storia che nasconde delle verità scomode: tutte le persone con cui ho parlato mi hanno dato la sensazione di custodire un qualche aspetto segreto di quanto è accaduto".
Il regista Bennett Miller
(Foxcatcher; USA 2014; Biopic Drammatico; 134'; Produz.: Annapurna Pictures/Likely Story/Media Rights Capital; Distribuz.: BIM)
Cast: Steve Carell (John du Pont) Channing Tatum (Mark Schultz) Mark Ruffalo (Dave Schultz) Anthony Michael Hall (Jack) Sienna Miller (Nancy Schultz) Vanessa Redgrave (Jean du Pont) Brett Rice (Fred Cole) Roger Callard (Pilota di elicotteri) Guy Boyd (Henry Beck) Corey Jantzen (Foxcatcher Wrestler) David Bennett (Regista di documentari) Jackson Frazer (Alexander Schultz) Samara Lee (Danielle Schultz) Francis J. Murphy III (Wayne Kendall) Jane Mowder (Rosie)
Musica: Rob Simonsen
Costumi: Kasia Walicka-Maimone
Scenografia: Jess Gonchor
Fotografia: Greig Fraser
Montaggio: Stuart Levy, Conor O'Neill e Jay Cassidy
Effetti Speciali: Jason Trosky (effetti speciali); Jake Braver e James Pastorius (supervisori effetti visivi)
Makeup: Bill Corso (capo dipartimento makeup); Kathrine Gordon (capo dipartimento acconciature)
Casting: Jeanne McCarthy
Scheda film aggiornata al:
31 Marzo 2015
Sinossi:
IN BREVE:
Il film è basato sulla vita di John du Pont (Steve Carell), erede dei magnati dell'industria chimica du Pont. Malato di schizofrenia paranoide, John du Pont passò tristemente alla cronaca per aver ucciso nel 1996 il campione di wrestling David Schultz (Mark Ruffalo), frequentatore della struttura sportiva da lui costruita nella sua tenuta in Pennsylvania.
I due erano sempre stati grandi amici e la polizia non è mai riuscita a stabilire il movente dell'omicidio a cui assistirono la moglie di Schultz e il capo delle guardie di sicurezza di du Pont. Dopo aver sparato, il multi-milionario si rinchiuse nella sua villa per due giorni, negoziando con la polizia per telefono.
The story of Olympic Wrestling Champion Mark Schultz and how paranoid schizophrenic John duPont killed his brother, Olympic Champion Dave Schultz.
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
DALLA VITA REALE ALLA FINZIONE, ALLA SCOPERTA DELLA VERITA', SOPRATTUTTO INTERIORE. IN QUESTO POTENTE VIAGGIO NELLA PSICHE UMANA DI BENNETT MILLER, COSTANTEMENTE SULLE TRACCE DELLA RIPRESA EMOTIVA A TUTTO TONDO, LA STRAORDINARIA RIVELAZIONE DI STEVE CARELL, TALLONATO DA CHANNING TATUM E MARK RUFFALO
Credo che tutti, in questo film, siano usciti dalle loro corde, per andare alla ricerca di un'aderenza ai rispettivi personaggi quanto meno inconsueta, certamente, non alla portata di tutti. A cominciare da Steve Carell, un autentico faro nel ruolo più drammatico e ingrato di tutta la sua carriera con l'eccentrico miliardario John du Pont, seguito da Channing Tatum tradotto nel lottatore Mark Schultz , mai tanto introspettivo e complicato, e un pò più a distanza, da Mark Ruffalo in Dave, il fratello maggiore di Mark.
Una storia di wrestling unica, sotto ogni punto di vista, per svariati motivi:
- perchè ispirata da una vicenda realmente accaduta a
persone dei cui destini informano le didascalie conclusive di quel che potrebbe anche leggersi come un distillato di psicanalisi pura.
- perchè lo sport è quasi un pretesto, la particolare circostanza attorno alla quale ruotano in particolare tre sentieri introspettivi, a diverso titolo tragicamente intrecciati tra loro.
- perchè il film diventa un pericoloso reticolo di dipendenza psicologica e socio-economica da una persona tanto ricca quanto gravemente compromessa in chiave psicotico-narcisista, fino alle estreme conseguenze ai danni del prossimo prima che di se stessa.
- perchè al timone della regia, Palma d'Oro al Festival di Cannes 2014, c'è uno come Bennett Miller, con una speciale sensibilità nella resa della potenza emotiva così come del non detto, trasparente tra le righe del pentagramma.
Pare, non a caso, che tutti i lungometraggi di Bennett Miller, compreso il suo film d'esordio, il documentario The Cruise, ruotino attorno a persone reali dalla spiccata personalità che si
trovano in circostanze insolite. Come già in Truman Capote-A sangue freddo o ne L'arte di vincere, con Foxcatcher-Una storia americana Bennett Miller torna ad esplorare temi sociali forti, attraverso complessi ritratti di personaggi realmente esistiti.
Fatta eccezione per rare e lievi sbavature per un incedere di troppo, o per la prevedibilità di alcune mosse (vedi la libertà concessa ai cavalli da du Pont nella scuderia di famiglia 'foxcatcher', per l'appunto), Miller opera una fantastica ed incisiva sintesi fin dalle prime sequenze del film: da una manciata di immagini di repertorio, anche in bianco e nero, sparse sui titoli di testa, passa ad un fugace episodio di allenamento del nostro primo protagonista, il Mark di Tatum, di cui in pochi istanti già si raccoglie un palpabile disagio psicologico, sottoscritto in un discorso ad una classe di bambini e nella circostanziale confusione di identità tra lui e il fratello Dave. Il Mark di
Mickey Rourke nel The Wrestler di Darren Aronofsky, giocato per l'appunto sul contrapposto tra la prestanza atletica, la possanza fisica, e una altrettanto imponente fragilità interiore, con fantasmi psicologici ingombranti, al punto da generare nel Foxcatcher di Miller, una sorta di trasmutazione in inquietante thriller noir. E purtroppo i fatti non smentiscono la finzione.
I germi sono tutti lì, annidati in quell'eccentrico personaggio che entra in scena poco più avanti, prima nella vita di Mark, come una ghiotta e imprevista opportunità , dopo anche in quella di Dave. Personaggio incarnato in modo a dir poco sconcertante in John du Pont da Steve Carell, come silenziosamente insidioso, di poche parole e assolutamente imprevedibile da ogni punto di vista, in un certo qual modo 'untuoso', affettato e di lì a poco freddo, glacialmente distaccato, la cui sotterranea psicosi, la malsana e problematica dipendenza dalla madre, genera quei mostri che non tarderanno a mostrarsi, dopo
aver strisciato come serpenti, tampinando il povero Mark in ogni dove, con il pretesto di seguirlo e di instillargli fiducia come suo mentore e coach in vista dei campionati del mondo: il cameo di Vanessa Redgrave nei panni dell'anziana madre si rende ininfluente alla luce dell'infinito reticolo di indiretti rimandi alla sua invadente persona, presente come cappa asfissiante e letale anche, e si potrebbe anzi dire, soprattutto, quando questa non c'è, vale a dire per la quasi totalità del tempo.
L'affresco di Miller sfuma dunque su allenamenti e incontri sportivi mentre insiste, alle volte un pelino di troppo, su quell'infaticabile e paranoico lavorare ai fianchi, sul corpo e nella mente di Mark/Tatum da parte di du Pont/Carell, lasciando nell'ombra quel fratello ingombrante, il Dave di Ruffalo, bonario e sincero, con la famiglia al primo posto nella scala dei valori, salvo riportarlo subdolamente alla ribalta al momento giusto. Il momento in
cui prenderà vita una drammatica 'craquelure' esistenziale, come vedremo, dai tragici risvolti, di fatto, per ognuno dei personaggi in campo. Per farsi perdonare qualche sosta di troppo, Miller ci regala d'altra parte sequenze indimenticabili, affidando il susseguirsi di certi eventi ai motivi musicali che non di rado vanno a sostituire dialoghi e sonoro, declinando certi raptus di rabbia repressa su un avvicendarsi di scorci di immagini mosse e rapide, o riassettate su qualche raro ma intensissimo rallenti, o piano sequenza: vale a dire tallonare, in un modo o nell'altro, la ripresa emotiva a tutto tondo. E nell'insieme, tutto questo fa davvero la differenza!
Secondo commento critico (a cura di JUSTIN CHANG, www.variety.com)
STEVE CARELL, MARK RUFFALO AND CHANNING TATUM GIVE SUPERB PERFORMANCES IN BENNETT MILLER'S POWERFULLY DISTURBING TRUE-CRIME SAGA.
In “Capote†and “Moneyball,†Bennett Miller gazed into the souls of real-life American iconoclasts launching bold and unexpectedly costly new enterprises, a theme that the director has now taken to powerfully disturbing extremes in his great, brooding true-crime saga “Foxcatcher.†Chronicling the events leading up to the 1996 murder of Dave Schultz, the Olympic wrestling champion who tragically found the wrong benefactor in the Pennsylvania multimillionaire John E. du Pont, this insidiously gripping psychological drama is a model of bleak, bruising, furiously concentrated storytelling, anchored by exceptional performances from Channing Tatum, Mark Ruffalo and an almost unrecognizable Steve Carell. Perhaps the sole credible awards-season heavyweight to have emerged from this year’s Cannes Film Festival, the Nov. 14 Sony Classics release should land with major impact among serious-minded moviegoers, as well as a possible
cross-section of Tatum and Carell fans who don’t mind a dramatic change of pace.
Despite its hefty 134-minute running time, “Foxcatcher†doesn’t have an ounce of the proverbial narrative fat: If the screenplay, by Dan Futterman (“Capoteâ€) and E. Max Frye, is relatively spare in terms of dialogue, it’s satisfyingly rich and thorny in its conception of the tightly wound triangle at its center, while Miller’s direction evinces the same sustained intensity and consummate control of his material that defined his first two features. Crucially, this meticulously researched picture feels as authentic in its understanding of character as it does in its unvarnished re-creation of the world of Olympic sports in the late ’80s; rarely onscreen has the art of wrestling, centered around the violent yet intimate spectacle of men’s bodies in furious collision, provided so transfixing a metaphor for the emotional undercurrents raging beneath the surface.
The film begins and ends
on Mark Schultz, played by Tatum with the perpetual frown and painfully inarticulate speech of a man who, despite having won a gold medal for wrestling at the 1984 Olympics in Los Angeles, has been made to feel like an underachiever for much of his life. Stuck in a glum cycle of training by day, eating ramen by night and doing the occasional speaking engagement in between, Mark has long lived in the shadow of his older, more gregarious brother, Dave (Ruffalo), a devoted family man who’s had an enviable wrestling career (the Schultzes remain the only American brothers in history to have both won Olympic and world championships).
Yet to define their relationship in terms of sibling rivalry would be reductive, given the tender and complicated portrait of fraternal love that emerges. Dave has been looking out for Mark since their parents split when they were young boys, and the
film proves particularly attentive to the fact that their regular wrestling practice provides a natural physical outlet for their occasional bouts of aggression. And so, when Mark receives an out-of-the-blue invitation from du Pont (Carell) to come train as part of a national U.S. wrestling team preparing for the 1988 Olympics in Seoul, he instinctively asks his brother to join him. Dave, however, is unwilling to uproot his wife (Sienna Miller) and two kids, leaving Mark to strike out on his own and move onto du Pont’s Valley Forge-adjacent, helicopter-accessible estate.
While the house’s sprawling grounds are undeniably impressive, including a long-running horse-racing operation known as Foxcatcher Farm, it’s du Pont (Carell) who really gets the viewer’s attention. Sporting pale, lightly freckled skin, near-invisible eyebrows and a large prosthetic nose, Carell doesn’t look anything like himself — nor, for that matter, does he sound much like himself, delivering his speech in
slow, stilted dribs and drabs, the somewhat nasal register barely concealing an edge of steel. We’re right to be wary: For all the money, perks (including cocaine) and declarations of gratitude that du Pont lavishes on Mark, who responds with all the loyalty of a love-starved puppy, one immediately senses something unhealthy, even sinister, about this curious entrepreneur and his unusually controlling nature.
The warning signs begin to add up at an alarming rate: du Pont’s refusal to ease up on the relentless training regimen he imposes on Mark and the other wrestlers; his gaseous invocations of American patriotism and honor as the reasons for his pursuit of Olympic glory; his delusional belief that he can all but singlehandedly save U.S. wrestling; his disquieting love of firearms; and, not least of all, the dangerously soft tenor of his voice when he doesn’t get what he wants. And what he wants, more
than anything, is for Mark to persuade his smarter, more seasoned brother Dave to join Team Foxcatcher.
How this eventually transpires is ultimately less fascinating than what comes afterward, as the widely cheered arrival of Dave and his family — to the chagrin of Mark, who finds himself in danger of being upstaged by this semi-prodigal son — lends the entire scenario the quiet dread of a ticking time bomb. Moving from team training sessions to the 1988 Olympic trials, where Mark’s seething resentment gets the better of him on the mat, the picture builds a slow-motion tragedy of astounding psychological acuity and narrative tension. And as Mark’s personal and professional freefall forces Dave to play the mediator, du Pont seems to retreat ever further into his own private cave; he becomes increasingly contemptuous of anyone who tries to thwart him, even as he comes to realize the essential hollowness of
the beloved mentor-figure persona he’s created for himself.
What we’re left with, then, is an acrid, anguished commentary on the temptations of wealth, the abuse of power and the downside of the human drive for success, as well as a picture that, in setting a cold-blooded account of a true crime in the world of competitive sports, retains a faint narrative kinship with both “Capote†and “Moneyball.†But any lessons we’re meant to glean from “Foxcatcher†ultimately pale next to the strange, specific and singularly haunting experience of the movie itself as it moves, with inexorable momentum, toward its stark, brutal climax.
In setting up their finale, Miller and his collaborators don’t make the mistake of overanalyzing their villain’s motives, trusting Carell’s subtly mesmerizing work to carry the burden of credibility. (Still, du Pont’s peculiar, difficult relationship with his mother, played by a primly disapproving Vanessa Redgrave, is certainly open to Freudian
interpretations.) Yet while Carell may deliver the most transformative turn here, it’s merely one of three supremely accomplished performances that connect thrillingly onscreen.
Always at his best when he can bring his intense physicality to bear on a role (“Magic Mikeâ€), Tatum delivers what is easily the most emotionally complex performance of his career, hulking through much of the picture exuding rage, surliness and disappointment, qualities that recede only during Mark’s brief honeymoon period with du Pont. And although he’s 12 years older than the role calls for, Ruffalo is wonderful as the big-hearted, salt-of-the-earth Dave, always ready (sometimes to a fault) to stand in the gap and defend those he loves.
In addition to the great brotherly rapport these two actors achieve here, they spent months learning to wrestle and absorbing the Schultz brothers’ signature moves; as choreographed by Jesse Jantzen, their bouts and stunts here are superbly convincing, shot in
clean, long takes that allow viewers a clear sense of bodies in motion. These scenes are themselves deftly integrated into a finely detailed portrait of the wrestling community (with appearances by real-life wrestlers including a cameo by Mark Schultz himself) that fascinates in and of itself, from a shot of the athletes standing in lines to weigh themselves, to a scene of Mark frantically peddling a stationary bike in a last-ditch attempt to drop several pounds.
After the flat, brown prairies of “Capote†and the ugly backrooms of “Moneyball,†Miller here confirms his stature as a poet of plain-looking America, bringing us into a humdrum world of hotel rooms, locker rooms and school auditoriums. Warm, bright colors have been leached almost entirely from d.p. Greig Fraser’s muted, wintry images and from Jess Gonchor’s subtly ’80s production design; Rob Simonsen’s score is spare and beautifully ominous, while the exceptional sound work often
alternates feverish background noise with silence to highly unsettling effect.