TI AMERÒ SEMPRE: KRISTIN SCOTT THOMAS MESSA A DURA PROVA RESISTE CON CORAGGIO ESTREMO PER PHILIPPE CLAUDEL
ATTRICI in PRIMO PIANO: A tu per tu con KRISTIN SCOTT THOMAS
"CELLULOIDPORTRAITS" ha insignito TI AMERO' SEMPRE
del Premio MENZIONE SPECIALE dell'ANNO 2009
'Premio della Giuria Ecumenica' al 58. Festival del Cinema di Berlino - Anteprima - PISA, Cinema Lumiére
"Ti amerò sempre è un film sulla forza delle donne, sulla loro capacità di resistere, di rimettere insieme i pezzi delle loro vite e di rinascere. E' una storia che parla dei nostri segreti, dell'emarginazione e dell'isolamento che tutti condividiamo".
Lo scrittore e regista Philippe Claudel
(Il y a longtemps que je t'aime FRANCIA/GERMANIA 2008; drammatico del mistero; 155'; Produz.: UGC YM/Canal +/Eurimages/France 3 Cinéma/Integral Film/Sofica Soficinéma 4/Sofica UGC 1/TPS Star/UGC Images; Distribuz.: Mikado Film)
Titolo in lingua originale:
Il y a longtemps que je t'aime (I've loved You So Long)
Anno di produzione:
2008
Anno di uscita:
2009
Regia: Philippe Claudel
Sceneggiatura:
Philippe Claudel
Cast: Kristin Scott Thomas (Juliette Fontaine) Elsa Zyberstein (Léa) Serge Hazanavicius (Luc) Laurent Grévill (Michel) Frédéric Pierrot (Capitano Fauré) Lise Ségur (P'tit Lys) Jean-Claude Arnaud (Pappy Paul) Mouss Zouheyri (Samir) Souad Mouchrik (Kaisha) Claire Johnston (La madre di Juliette e Léa) Catherine Hosmalin (Insegnante) Olivier Cruveiller (Gérard) Liliy-Rose (Emélia)
Musica: Jean-Louis Aubert
Costumi: Jacqueline Bouchard
Scenografia: Samuel Deshors
Fotografia: Jérôme Alméras
Montaggio: Virginie Bruant
Scheda film aggiornata al:
16 Novembre 2020
Sinossi:
IN BREVE:
Dopo quindici anni di carcere, Juliette viene rilasciata ed è accolta in casa dalla sorella minore Léa, che vive a Nancy con il marito Luc e le due figlie. Juliette e Léa in questi anni non hanno mantenuto i contatti e vista anche la differenza di età sono più o meno estranee l'una all'altra. Con il passare del tempo, però, e grazie all'affetto delle nipoti Juliette riuscirà ad abbattere il muro di solitudine che si è costruita in prigione, mentre Léa scoprirà quanto le sia mancata la sorella...
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
MAGISTRALE PER SCENEGGIATURA, REGIA E RECITAZIONE QUESTA OPERA PRIMA IN CELLULOIDE DELLO SCRITTORE PHILIPPE CLAUDEL. CAST ECCELLENTE CON UNA SCONVOLGENTE KRISTIN SCOTT THOMAS IN PRIMA LINEA, INEDITA RIVELAZIONE PER QUELLO CHE ASSURGE AL RUOLO PIU’ ALTO IN ASSOLUTO DI TUTTA LA SUA CARRIERA. NON BASTA LA NOMINATION AI GOLDEN GLOBES E LA SUA VITTORIA COME ‘MIGLIOR ATTRICE EUROPEA’ AGLI ‘EUROPEAN FILM AWARDS 2008’. QUESTA VOLTA PER LEI AVREMMO VOLUTO L’OSCAR
La ragione per cui l’opera prima alla regia di Philippe Claudel si è rivelata una ‘gemma’, e non solo di cinematografia, un piccolo capolavoro, si appunta su un talento prismatico, più che su un solo ‘movente’.
Il fatto che Philippe Claudel sia prima di tutto uno scrittore - e dunque ‘geneticamente’ versato al grande respiro letterario - che per la prima volta ha voluto mettersi dietro la macchina da presa, la dice già lunga sulla solidità, strutturale e non solo, di questa
drammatica storia. Anche se non è detto che al talento visivo che un grande letterato è capace di trasmettere alla pagina scritta corrisponda poi un’equipollente pregnanza narrativa nella trasposizione in celluloide, qui con Ti amerò sempre, Claudel vince la scommessa partendo bene dalle fondamenta, garantendosi cioè una sceneggiatura solida con selezionatissimi ‘distillati-gourmet’. Che la sceneggiatura in un film sia fondamentale è qui ribadito a chiare lettere, paradossalmente anche quando fa dei silenzi il suo spartito prediletto. Guillermo Arriaga (opera prima come regista per The Burning Plain – Il confine della solitudine), tanto per citare un esempio recente, ce ne ha data un’altra eloquente dimostrazione.
Si parla di raffinatezza strutturale e stilistica, cui non fa certo difetto la portata sul piano dei contenuti. Sotto l’ala di un primario dramma privato Claudel ne affilia difatti molti altri, uniti tra loro da tratti di svariato disagio, radicati nel profondo delle rispettive interiorità,
fino ad abbracciarne le pieghe più nascoste. Un emisfero umano che mostra le sue schegge più maltrattate e sofferenti di ferite talora non rimarginabili, autoeleggendosi vittima di se stesso.
Il tutto osservato con attenzione lenticolare ad un altro prisma focale: quello morale, colto nella sua più alta espressione, quella che non si permette di giudicare ma che empaticamente con i protagonisti, è capace semplicemente di ascoltare, attraverso le loro abissali profondità del dolore, filtrato dall’intensità di quei silenzi che le rispecchiano, ben più eloquenti di tante parole.
E’ su questo pentagramma di vite vissute e perdute che spuntano qua e là note che ne fortificano la triste melodia: a cominciare dal cinema stesso, con Eric Rohmer che diventa argomento di amabile conversazione di fronte ad una tavola imbandita. Regista francese di lunga data che non a caso ha al suo attivo quei Racconti morali, fondati su un protagonista posto di fronte
ad una scelta di tipo morale mediante una messa in scena essenziale con dialoghi generosi, a loro volta, di riferimenti letterari.
Ma Philippe Claudel trova il momento giusto per chiamare in causa anche Fëdor Michajlovič Dostoevskij e la sua pretesa “radiografia dell’omicida”. Così come c’è spazio per visite al Museo dove la protagonista confronta il suo dolore con quello rappresentato su tela dal pittore, stilisticamente appartenente alla ‘corrente naturalista’, Emile Friant (1863-1932), capace di catturare, appunto, il dolore di chi si accorge che, inevitabilmente, forse ha fatto del male a chi ama, causando ferite profonde (vedi anche Ombre proiettate, recente acquisizione parigina del Musée d’Orsay).
E poi c’è la perla più drammaticamente pura che si sia mai vista: quella che veste un personaggio tra i più complessi e tragici che se ne possano trovare, sia in letteratura che nel cinema o, se vogliamo, nelle arti in genere. E’ il personaggio di
Juliette, una inedita seconda pelle per Kristin Scott Thomas. Artista da noi particolarmente apprezzata che qui, ha senza ombra di dubbio superato se stessa nel trasmettere allo spettatore il suo viatico di introspezione in chiave assolutamente criptico-minimalista, toccando l’apice per quello che si ricorderà a lungo quale il ruolo più importante e intenso di tutta la sua carriera.
Già nominata ai Golden Globes e vincitrice come ‘Migliore Attrice Europea’ agli ‘European Film Awards 2008’, a nostro avviso avrebbe meritato pienamente di portarsi a casa l’Oscar con l’orgoglio umano e professionale di aver servito in guanti bianchi una storia stracarica, ma affatto pesante - che ha valso svariati Premi anche al regista - di riflessioni plurime sul piano umano, sociale e morale: dalla “linea sottile” che può separare chi sta dietro ad un carcere da chi sta fuori, alle sfaccettate problematiche che girano intorno alle adozioni, dalla fitta coltre di pregiudizi
mirati alla condanna di atti inconsulti paradossalmente compiuti per eccesso di amore, all’amara girandola di solitudini che muove divorziati, anziani relegati nei vari ‘carceri interiori’ all’interno di ospedali, commissari di polizia più ‘incasinati’ dei loro ‘sorvegliati’, anime in cerca di conforto con un dialogo che non è affatto sufficiente a sanare le loro ferite, fino all’incapacità di amare incondizionatamente preferendo negare l’esistenza ‘scomoda’ del nostro prossimo più immediato o, persino la nostra stessa esistenza.
Potremmo a questo punto entrare nel merito dei dettagli, di chi rappresenta cosa, ma preferiamo non dire nulla, facendo propri quei silenzi che scorrono a fiume in questo importante film, per dar anima e corpo pieni ad una sceneggiatura in corsa sul filo di pensieri e primissimi piani che certo non lasciano cadere nel vuoto neppure una briciola della loro irradiante portata.
Preferiamo tacere perché questa volta andare al cinema non è una proposta. Per Il y a
longtemps que je t'aime diventa un ‘must’. Il titolo originale, soprattutto per gli stranieri, potrà forse risuonare complicato quanto il rapporto tra queste due sorelle ‘mancate’ a lungo e ‘ritrovate’ sul filo della canzone omonima che un tempo le aveva viste unite per cantarla e suonarla insieme a quattro mani su un vecchio pianoforte. Ma per una volta, anche il titolo italiano rende l’idea, fa la sua parte, raccogliendo l’essenza dell’epilogo di questa storia dolorosa non priva dell’autocondanna della protagonista quanto della sua inevitabile, necessaria, redenzione.
Quando si riesce a fare tutto questo, a passare dalla ‘quiete prima della tempesta’ e, dopo l’inevitabile ‘esplosione’ - da brivido - a sfumare su un finale che, perfettamente in linea con il resto della storia, non dice, ma ‘ammicca’ - ed è più che sufficiente - ad una nuova ‘ritrovata quiete-simulacro’, può essere solo espressione tangibile di un indiscusso talento quanto di una
profondissima sensibilità, umana oltre che artistica.
Secondo commento critico (a cura di La parola al film)